Philadelphia, Giugno 2018. Bryan Colangelo, president of basketball operations e general manager dei Philadelphia 76ers, rassegna le sue dimissioni. Assunto poco più di due anni prima, Colangelo, con il suo bagaglio di esperienza – che include due titoli di executive of the year nel 2005 e 2007 – era stato scelto per portare la squadra al successo dopo anni di lunga e pesante ricostruzione.
I 76ers sono di fatto reduci da una stagione di netto miglioramento ma un’inchiesta di theringer.com porta alla luce il coinvolgimento di Colangelo in una serie di account Twitter anonimi che per due anni hanno ingaggiato vari media, interagito con blogger e giornalisti vicini alla squadra, diffuso informazioni sensibili su strategie di mercato e infortuni, criticato giocatori propri o general manager di altre franchigie e ad ogni tweet regolarmente difeso il suo operato.
All’inizio della storia questa la sua prima giustificazione: “Come molti altri colleghi nello sport, ho usato i social media come mezzo per tenermi aggiornato. Sebbene non abbia mai postato nulla, ho usato l’account Twitter @Phila1234567 – l’inchiesta farà emergere in realtà almeno altri 4 account collegati – per seguire il nostro settore e altri eventi attorno alla squadra”.
In ogni sport i manager sono valutati in primis per i loro risultati sportivi, anche se non è un mistero quanto una buona relazione con i media possa cambiare la percezione attorno al loro lavoro. Non si era mai visto prima però un general manager di primissimo livello perdere il proprio lavoro per dei profili finti da usare sui social.
Nell’incontro tra sport e social media infatti, non esiste niente come NBA Twitter: un bar sport che non chiude mai, un barbiere con posti infiniti, una festa continua dove ogni tanto compare anche una star NBA a fare un giro.
Quello che rende oggi l’NBA la lega più twittata parte però da lontano. Melissa Brenner, executive vice president of digital media per l’NBA, ricorda ancora un incontro del 2005 con il dipartimento legale e Adam Silver, allora futuro commissioner (i.e. direttore generale della lega). L’oggetto del giorno: YouTube.
“Diversi nello sport non apprezzavano l’opportunità che YouTube stava offrendo al pubblico e si preoccupavano principalmente di pirateria e copywright” Brenner racconta al Washington Post. “Adam invece vide un’opportunità: come introdurre i nostri contenuti laddove il pubblico si sta concentrando? Come ci assicuriamo di essere parte della conversazione?”
L’idea era di usare i contenuti come snack, che avrebbero potuto far crescere l’appetito per qualcosa di più grande.
“Se offriamo gratis questi snack ai nostri fans, vorranno comunque mangiare i pasti completi – le nostre partite. Non c’è niente che sostituisca una partita dal vivo. Siamo convinti che un engagement maggiore attraverso i social media faccia crescere anche l’audience televisiva”
La possibilità di condividere video attraverso twitter, instagram o snapchat ha cambiato il modo di parlare dell’NBA nell’arco di tutta la stagione. I fan possono commentare gli highlights in modo praticamente real-time, scambiarsi battute su momenti divertenti o fare osservazioni su stranezze che notano in panchina o sugli spalti.
“Molti pensano che twitter sia un second-screen quando si guarda una partita” dice Alexis Morgan dei Memphis Grizzlies. “Per me è in realtà il first-screen perché è la prima cosa che guardo quando succede qualcosa di incredibile. Alla fine, passo più tempo a guardare la mia timeline che la partita stessa”
La sfera d’influenza dei giocatori ha però ormai superato ben oltre le singole partite. Nella scorsa off-season – il periodo estivo – sono stati 76 milioni i tweet relativi all’NBA, alcuni dei quali nascono direttamente da giocatori che sfruttano la piattaforma a loro disposizione anche eludendo le barriere di tematiche sportive.
Il re dei tweet appartiene a Lebron James: il suo “bum” -più o meno traducibile con “fallito”- rivolto a Donald Trump si è guadagnato 1.300.000 mi piace e 617.000 retweet.
La magia di NBA Twitter però si avvera anche su scala molto più ridotta. Alcuni dei momenti migliori infatti avvengono quando gli atleti si confrontano con i propri fan in un modo diretto e spontaneo come non era mai successo prima.
Come quando Jennifer Williams rispose “Vinci una partita di playoff e poi parla” ad un tweet di CJ McCollum per vedersi rispondere un esilarante “I’m trying Jennifer” dal giocatore stesso.
Ancora più clamore fece la conversazione tra Kevin Durant e un altro fan casuale a proposito dell’abbandono dello stesso Durant agli Oklahoma City Thunder: peccato purtroppo che Kevin, prima di rispondere con pesanti critiche alla sua ex squadra, si dimenticò lo switch dell’account finendo con parlare di sé in terza persona, rivelando di fatto come stesse usando account anonimi per rispondere alle critiche a lui rivolte.
Ma cosa porta atleti milionari, talenti storici al massimo della propria carriera a rispondere anche alle più piccole provocazioni?
All’ultima MIT Sloan Sports Analytics Conference, Adam Silver ha suggerito come molti dei giocatori di oggi siano fondamentalmente infelici. Spiegando come “nell’era dell’ansia” molti dei giocatori che incontra siano “infelici e sorprendentemente isolati”.
Il fascino dei social per gli atleti è chiaro: possono controllare la propria immagine in prima persona. Ma questo li lascia anche esposti agli abusi del pubblico. “Una delle fobie più diffuse nell’uomo moderno è la fear-of-people’s-opinions [FOPO]” spiega dr. Gervais al Guardian “ch è di fatto la nostra paura principale e i social media non fanno che amplificarla”.
JJ Redick, guardia dei 76ers, ha lasciato i social la scorsa estate, dopo aver realizzato quanto tempo ci stava perdendo e quanto venisse distratto dalle cose più importanti della sua vita. “Sono un brutto posto, malsano. Non sono reali” confida a Bleacher Report “Non sono un posto sano per il proprio ego, se la prendiamo alla Freud. Sono solo un ciclo di rabbia, auto-validazione e tribalismo. Sono qualcosa di spaventoso”.
“I millennials hanno davvero paura di tutto” aggiunge la psicologa Linda Strohman. “Così ritroviamo atleti che sono estremamente studiati, per mantenere il loro brand. Tanto da avere team dedicati che se ne occupano, provocando in loro solo una forte sensazione di vuoto interiore”.
Che effetto avranno i social quindi sulla prossima generazione di giocatori NBA? Saranno altrettanto tristi come alcuni delle star millennials di oggi? Strohman non pensa sia questo il caso. I giocatori del futuro, dalla generazione Z in poi, possederanno una migliore interpretazione dei social, imparando dagli errori dei millennials.
“La generazione Z ha radici più forti per quanto riguarda l’interazione con il digitale e come filtrare la sua influenza” conclude Strohman. “I millennials sono semplicemente la generazione che ha aperto la strada”.
PS – l’influenza di Twitter su chi vince invece? Provate a chiedere a Kawhi Leonard, MVP delle finali di questa stagione, il suo profilo (non) parla da sé.
Alessandro è Head of Service Design di Generali Italia e co-founder di Mirai Bay con cui collabora come Strategic Advisor per le aree di organizzazione, innovazione e strategia di business.